Boom di fallimenti e bilanci a rischio: ecco perché i banchieri ora chiedono aiuto allo Stato

Boom di fallimenti e bilanci a rischio: ecco perché i banchieri ora chiedono aiuto allo Stato


Crollo dei crediti a rischio. Più finanziamenti alle aziende. E profitti a sufficienza, con la vistosa ma scontata eccezione del Monte dei Paschi, per distribuire ai soci un dividendo. A giudicare dai bilanci del 2020, gli istituti di credito italiani sembrano aver assorbito senza particolari problemi la peggiore recessione dell’ultimo secolo.

Eppure, da settimane la lobby dei banchieri marca stretto il governo. In ballo c’è il rinnovo delle misure di sostegno all’economia, gli aiuti anti Covid-19 da poco prorogati fino a giugno. «Bisogna dare respiro alle imprese», è uscito allo scoperto di recente in un’intervista il presidente dell’associazione bancaria italiana (Abi), Antonio Patuelli. E quindi, in concreto, lo Stato dovrebbe estendere almeno fino alla fine dell’anno le garanzie pubbliche sui finanziamenti alle aziende così come la moratoria sui prestiti. Sono queste le richieste che arrivano dal mondo della finanza. In caso contrario, – è la previsione – non ci resta che prepararci a una tempesta perfetta, perché migliaia di aziende uscite malconce dal tunnel della recessione da virus si troverebbero a fronteggiare la ripresa a corto di liquidità e pressate dagli impegni nei confronti dei finanziatori. E allora crisi e fallimenti si moltiplicherebbero con conseguenze pesanti sull’occupazione. Quindi, come ha spiegato in un’audizione alla Camera Alessio De Vincenzo, responsabile del servizio Stabilità finanziaria di Bankitalia, «è opportuno che la revisione delle misure» di sostegno alla liquidità «avvenga in modo graduale». Questo tipo di approccio, secondo De Vincenzo, consentirebbe alle aziende con «temporanei problemi finanziari ma con prospettive di ripresa di continuare a operare, mantenendo così il potenziale produttivo dell’economia».

I banchieri, ovviamente, guardano a casa propria e sanno bene che uno stop improvviso agli aiuti per imprese e famiglie sarebbe molto difficile da gestire anche per loro. Gli analisti parlano di “cliff edge”, l’effetto baratro, cioè una frenata repentina dell’economia che innesca un aumento rapidissimo dei finanziamenti a rischio e di quelli irrecuperabili (sofferenze) nei bilanci delle banche. Ecco perché la lobby del credito si sta muovendo anche in sede europea per ottenere una revisione delle norme da poco introdotte a proposito della classificazione dei crediti deteriorati.

La riforma varata in più tappe tra il 2016 e il 2019 impone maggiori oneri agli istituti bancari, che ora chiedono maggiore libertà d’azione paventando contraccolpi pesanti sulla stabilità dell’intero sistema finanziario.
Un anno fa, quando la pandemia è esplosa, la Banca centrale europea è riuscita a scongiurare l’avvitamento dell’economia aprendo al massimo il rubinetto della liquidità, con i tassi d’interesse pilotati fino al minimo storico. Inoltre, la vigilanza di Francoforte ha dettato ai banchieri una serie di misure per rafforzare il patrimonio come, per esempio, il divieto di distribuire dividendi agli azionisti.

Un divieto che per il 2021 è stato allentato solo in parte. I singoli governi hanno fatto il resto. In Italia, la moratoria sui crediti ha protetto più di 1,3 milioni di imprese indebitate per quasi 200 miliardi. A queste vanno aggiunte circa 1,4 milioni di famiglie che hanno potuto rinviare il pagamento delle rate sui propri debiti, compresi i mutui immobiliari, per un totale di 95 miliardi. Intesa, la più grande banca italiana, ha sospeso il rimborso di prestiti per circa 85 miliardi nel corso del 2020, il BancoBpm ha accordato moratorie per 16 miliardi mentre Bper è arrivata a 12 miliardi.

Gli aiuti dei vari decreti ristori uniti al blocco dei licenziamenti hanno quantomeno circoscritto gli effetti del crollo del Pil (meno 8,8 per cento nel 2020). Le statistiche più aggiornate segnalano, per esempio, che l’anno scorso, i fallimenti sono diminuiti di un terzo rispetto al 2019. Di conseguenza, anche le banche sono riuscite a contenere senza troppi problemi le perdite da pandemia. L’anno scorso gli istituti di credito hanno proseguito l’opera di pulizia in bilancio cedendo 38 miliardi di crediti a rischio, acquistati da società specializzate che provvederanno a incassarli. A dispetto della pessima congiuntura economica, anche le sofferenze in bilancio sono diminuite. A fine 2020, questa categoria di crediti a rischio, quelli considerati irrecuperabili perché concessi ad aziende fallite o in stato prefallimentare, si era ridotta a 20 miliardi di euro, cioè l’1,2 per cento sul totale degli impieghi delle banche italiane, contro i 27 miliardi (1,55 per cento del monte complessivo dei prestiti) iscritti a bilancio a dicembre del 2019.

Lo scenario di questi mesi appare ben diverso rispetto a quello di un decennio fa, quando la crisi del debito sovrano, e la recessione economica che ne seguì, innescò una serie di dissesti, dalle Popolari venete fino all’Etruria, con centinaia di migliaia di piccoli azionisti che persero per intero il loro investimento. Di recente invece le banche hanno fatto passi avanti anche in Borsa, recuperando gran parte dei ribassi accumulati a partire da marzo dell’anno scorso, quando la pandemia mandò al tappeto i listini. Nell’arco degli ultimi due mesi, l’indice del settore creditizio ha messo a segno un progresso del 20 per cento circa, più del doppio rispetto alla media del listino. La ripresa si spiega anche con le tensioni al rialzo dei tassi d’interesse sui mercati finanziari. Un rialzo che almeno in prospettiva potrebbe dar fiato ai margini di profitto del credito, da tempo ai minimi termini.

A questo punto, però, l’attenzione di analisti e investitori è tutta concentrata sui prossimi mesi, quelli che dovrebbero portarci verso la fine dell’incubo Covid-19. Le incognite per il sistema finanziario, così come per l’intera economia, sono numerose. I guai della campagna vaccinale uniti alle incertezze sull’attuazione del recovery plan alimentano l’incertezza sul futuro prossimo. Nelle previsioni del governo uscente, quest’anno l’economia italiana avrebbe dovuto crescere del 6 per cento, ma al momento secondo le stime più accreditate, da Bankitalia all’Ufficio parlamentare di bilancio, l’aumento del Pil non andrà oltre il 3,5 per cento.

I rischi maggiori sono legati alla fase di uscita dall’emergenza. Il ritorno alla normalità, quando verranno meno gli aiuti pubblici varati durante la pandemia, si rivelerà molto complicato da gestire per un gran numero di imprese. Il numero dei fallimenti tornerà a crescere, anche se è difficile stimare quale potrà essere l’ordine di grandezza di questo incremento. Di certo, «l’aumento dei crediti deteriorati è il principale rischio che le banche italiane si trovano a fronteggiare», come ha osservato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco nell’audizione del 15 gennaio scorso davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema finanziario. Secondo le stime più aggiornate, nei prossimi due anni gli istituti di credito nostrani saranno chiamati a gestire prestiti scaduti, inadempienze probabili e sofferenze per un valore compreso tra 60 e 100 miliardi.

L’Abi, in un report elaborato insieme a Cerved, ha calcolato che le posizioni a rischio nei bilanci bancari a fine 2020 sono calate al minimo storico del 2,5 per cento sul totale degli impieghi. Nel corso di quest’anno, si legge nel rapporto, la massa dei crediti deteriorati dovrebbe di nuovo impennarsi fino al 4,3 per cento dei prestiti complessivi. Un dato negativo, ma comunque molto distante dal picco del 7,5 per cento raggiunto nel 2012, ai tempi della recessione seguita alla crisi del debito sovrano.

Grazie alla profonda ristrutturazione varata negli anni scorsi, il sistema bancario si prepara ad affrontare con bilanci più solidi le nuove turbolenze all’orizzonte. Nel frattempo, però, il mondo è cambiato. La pandemia ha seminato timori e incertezza per il futuro prossimo venturo. Di conseguenza, le imprese hanno ridotto gli investimenti al minimo indispensabile e le famiglie, anche quelle che avrebbero potuto permettersi di spendere, hanno dato un taglio ai consumi.

A partire dalla primavera dell’anno scorso nei conti correnti degli italiani si è quindi accumulata una quantità di denaro senza precedenti. A fine febbraio i depositi bancari nel nostro Paese hanno raggiunto la cifra record di 1.745 miliardi, il 10 per cento in più rispetto allo stesso mese del 2020. Questo fiume di denaro resta parcheggiato con rendimenti minimi (a volte nulli, se si considerano tasse e spese varie) e non va ad alimentare l’economia, che ne avrebbe quanto mai bisogno in vista della ripresa post pandemia. Gli istituti di credito, da parte loro, vedono sfumare enormi occasioni di guadagno. Basterebbe che i clienti, invece di parcheggiare i risparmi sul conto, ne investissero almeno una parte in fondi e polizze, fonte di ricche commissioni per gli istituti di credito. E così c’è anche chi minaccia di passare dalle parole ai fatti. Alessandro Foti, amministratore delegato di Fineco, ha annunciato che si riserva di chiudere i conti correnti con un saldo superiore ai 100 mila euro, se il cliente non impiega il suo denaro in altri prodotti offerti dalla banca. Una misura estrema, l’ultima trincea dei banchieri spiazzati dal Covid-19.



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